Benvenuti

"Dobbiamo inventare una nuova saggezza per una nuova era. E nel frattempo, se vogliamo fare qualcosa di buono, dobbiamo apparire eterodossi, problematici, pericolosi e disubbidienti a coloro che ci hanno preceduto".
JOHN MAYNARD KEYNES Essays in persuasion

"Non aver paura che la vita possa finire. Abbi invece paura che non possa cominciare mai davvero".
JOHN HENRY NEWMAN

mercoledì 17 aprile 2013

Figli adolescenti e crisi di coppia

Due adolescenti, dopo averne parlato a lungo tra loro, annunciano ai rispettivi genitori: "Ogni volta che non siamo d'accordo con voi, ci dite sempre che la nostra opposizione è tipica della crisi adolescenziale, e che passerà. Ma il vostro comportamento non è forse tipico della vostra crisi rispetto alla vostra età? Se noi siamo adolescenti, voi siete invecchiati. Quando eravamo bambine, voi eravate giovani. E' difficile, per voi come per noi, accettare lo scorrere del tempo, e il passaggio da un periodo della vita a un altro".

Le ragazze non hanno torto: la crisi dell'adolescenza e il suo superamento si vivono in più persone, non riguardano solo l'adolescente: anche i genitori hanno le loro responsabilità.
Non è certamente facile per un genitore constatare di stare invecchiando e che il figlio o la figlia dimostrino quell'entusiasmo e quelle passioni che provava lui, alla loro età, e che ha loro in parte indubbiamente trasmesso.

Mentre la sua vita di coppia attraversa una crisi - provvisoria o durevole - tra noia e rivendicazioni, egli sorprende i primi segni, ai suoi occhi sempre troppo precosi, delle relazioni affettive e forse sessuali del figlio, e prova una piccola stretta al cuore, mescolata alla nostalgia, all'invidia, al rimpianto, unite talvolta a una leggera punta di gelosia. Ed è sufficiente che entrino in gioco ad esempio la monotonia del proprio lavoro o il rischio di essere licenziati, per far affiorare una perdita di fiducia in se stessi e pensieri depressi.

Per di più, per anni, in una dolcezza complice o nel conflitto, nella felicità o nel malinteso e nell'insoddisfazione, il genitore si è occupato del proprio bambino, se ne è preoccupato. Ora deve prendere atto che questo bambino diventato un adolescente non ha più bisogno di lui (non è vero, ovviamente, ma questo è ciò che l'adolescente afferma).

I genitori che hanno fiducia in se stessi e in ciò che hanno trasmesso al loror figlio si lasciano meno coinvolgere dalla sua crisi. Lo stesso accade a quelli che non si sentono aggrediti dalle sue domande, anche se formulate in modo aggressivo: essi vi trovano la forza e il sostegno necessari per guardare in faccia la loro storia familiare.

Questo perchè la crisi (o le domande) dell'adolescente rivela, o risveglia, nei suoi genitori delle storie familiari complesse, la cui origine può trovarsi nelle generazioni passate.


Parole di Daniel Oppenheim, psichiatra e psicoanalista, tratte da "Dialoghi con i bambini sulla morte", 2000, Erickson, Trento

mercoledì 10 aprile 2013

Esistono ancora gli adulti?

Cosa sta accadendo? Se l'adulto è qualcuno che prova ad assumersi le conseguenze dei suoi atti e delle sue parole, non possiamo che constatare un forte declino della sua presenza nella nostra società. Gli adulti sembrano essersi persi nello stesso mare in cui si perdono i loro figli, senza più alcuna distinzione generazionale; rincorrono facili amicizie sui social network, si vestono allo stesso modo dei figli, giocano coi loro giochi, parlano lo stesso linguaggio, hanno gli stessi ideali. Questo nuovo ritratto dell'adulto esalta il mito immortale di Peter Pan, il mito della giovinezza perenne, la retorica di un culto dell'immaturità che propone una felicità spensierata e priva di responsabilità.

La domanda di molti nostri giovani ed è una domanda che insiste e che ci mette con le spalle al muro: esistete ancora? Esistono ancora degli adulti? Esiste ancora qualcuno che sappia assumersi responsabilmente il peso della propria parole e dei propri atti? Al centro non è più il conflitto edipico tra le generazioni, ma la solitudine di una generazione che si sente lasciata cadere, abbandonata, che cerca il confronto con il mondo degli adulti ma non lo trova, che fa fatica a trovare degli adulti coi quali misurare il proprio progetto di mondo.

L'adulto non è tenuto a incarnare nessun modello di perfezione, nessun ideale normativo. Anzi tra i suoi esemplari peggiori dobbiamo proprio catalogare quelli che si offrono come modelli ideali agli occhi dei giovani. A un adulto non si deve chiedere di rappresentare l'ideale di una vita cosiddetta morale, né tantomeno, di una vita compiuta, ma di dare peso alla propria parola, il che significa innanzitutto provare ad assumere tutte le conseguenze dei suoi atti. Un adulto non è tenuto a incarnare nessun ideale di perfezione, ma è tenuto a dare un peso simbolico alla propria parola.

Il problema è diventato quello dell'assenza di cura che gli adulti manifestano verso le nuove generazioni. In gioco è lo sfaldamento di ogni discorso educativo



Parole di Massimo Recalcati, tratte da "Il complesso di Telemaco", Feltrinelli, 2013

mercoledì 3 aprile 2013

Educare è un'impresa congiunta

Se i genitori non hanno confrontato tra di loro gli obiettivi e i mezzi dell'educazione da impartire rischiano una continua diatriba: accade che l'uno sgridi e punisca il figlio e che l'altro si prodighi per esautorare il coniuge e rendere così inefficace il suo intervento.

Mentre la madre obbliga severamente Mario a riordinare la stanza, il padre entra e ridendo esclama: "Proprio tu, che sei la donna più disordinata che io conosca!". Oppure il padre sta allenando il ragazzo per un torneo di calcio, quando la madre si intromette: "Non stancarlo con queste sciocchezze che deve ancora fare i compiti!". Sono discrepanze solo apparentemente casuali che rivelano però un disaccordo di fondo.

Quale importanza attribuire all'ordine, alla pulizia, alla proprietà, al denaro, al cibo, al gioco, alle convenienze, alla competizione, all'amicizia, alla coerenza, alla sincerità, all'obbedienza non può essere deciso di volta in volta. Occorre condividere una visione di massima, un ordine di priorità, uno stile di rapporto. Sulla singola situazione le differenze sono sempre possibili, ma è meglio non intervenire direttamente di fronte al ragazzo; si potrà sempre discuterne in un secondo momento. I figli sono infatti abilissimi a dividere i genitori, a porli in contraddizione tra di loro, a giocarli l'uno contro l'altro.

Parole di Silvia Vegetti Finzi tratte da "Il romanzo della famiglia", 1992, Mondadori, Milano

domenica 31 marzo 2013

Auguri di Buona Pasqua!

 

A stento il Nulla
 
 
 
No, credere a Pasqua non è
giusta fede:
troppo bello sei a Pasqua!
Fede vera
è al venerdì santo
quando Tu non c'eri lassù!
Quando non una eco risponde
al suo alto grido
e a stento il Nulla
dà forma
alla tua assenza.
DAVID MARIA TUROLDO
Canti ultimi, 1991, Milano


venerdì 8 febbraio 2013

"Ci vuole tutta una stirpe per portare una madre che porta un bambino"


Marie Rose Moro ci ricorda con queste parole che nelle culture africane il bambino, straniero alla nascita, entra a far parte della comunità degli umani compresa la madre, attraverso un processo di umanizzazione (espressione che ricorre anche nelle loro lingue) che ha come protagonista il mondo sovrannaturale degli antenati.

L’imposizione del nome, che avviene in genere dopo sette giorni dalla nascita, prevede un rituale nel corso del quale si cerca di identificare quale antenato fa ritorno attraverso di lui, cercando così di capire il messaggio di cui il nuovo nato è portatore.

L’identificazione corretta dell’antenato e del messaggio consente di “separare” il neo-nato dall’universo sovra-umano e di introdurlo nella famiglia umana consentendo così la relazione con la madre.

Il bambino non è concepito in relazione simbiotica con la madre e il distacco non è dalla madre ma piuttosto dal mondo sovra-umano. Inoltre questo passaggio all’umano attraverso il rituale di nominazione e di separazione dal mondo degli antenati tocca non solo al bambino, ma a tutta la parentela, perché suppone che finché coloro che accolgono il neonato non hanno regolato i conti con la loro catena generazionale (nonni o antenati), il bambino non può svilupparsi armoniosamente e non riesce a inserirsi adeguatamente nella comunità degli uomini.

Ciò spinge e obbliga ogni membro della comunità, e in particolare i genitori e la parentela, a pensarsi entro una catena generazionale, a dialogare e interagire con essa liberandola da pesi e conflitti che vi gravano.

Un modo, questo, per promuovere riconoscimento e perdono.

Al contrario, nella cultura attuale del mondo occidentale, il figlio assai di frequente è “della coppia”, nel senso che da essa viene nominato senza riferimento alcuno alle famiglie di origine e agli antenati. Si scelgono i nomi alla moda o ci si affida a preferenze personali; la storia generazionale è così messa alle spalle.

Basta però che una crisi laceri la relazione di coppia genitoriale perché il rilievo delle famiglie di provenienza, materna e paterna, emerga anche in maniera virulenta come di frequente capita nei casi di divorzio.

Così ciò che è posto sullo sfondo della relazione continua a operare come una sorta di fiume carsico che all’improvviso fuoriesce.
 
Parole di Eugenia Scabini e Vittorio Cigoli tratte da "Alla ricerca del famigliare", 2012, Milano, RaffaelloCortina

mercoledì 23 gennaio 2013

Mini-test sul conflitto di coppia

Sono sette domande.
Si può fare da soli o in coppia. 
I risultati si possono condividere oppure no.
La condivisione dei risultati può risultare utile per avere il punto di vista dell’altro sulla situazione di coppia in questa dimensione specifica: il conflitto.
Rispondete a ogni domanda pensando alla vostra relazione: assegnate un punteggio a ciascuna domanda con questo criterio 1=quasi mai o mai, 2=una volta ogni tanto, 3= spesso.

 
_______Piccoli battibecchi si trasformano in litigate furibonde che si accompagnano ad accuse, critiche, improperi o che riportano a galla dal passato vecchie ferite.
_______Il mio/La mia partner critica o sminuisce le mie opinioni, i miei sentimenti o desideri
_______Il mio/La mia partner sembra considerare le mie parole o azioni più negativamente di quanto io credo che siano
_______Quando abbiamo un problema da risolvere, è come se fossimo su fronti contrapposti
_______Mi trattengo dal dire al mio/alla mia partner che cosa cosa penso e provo veramente
_______Mi sento solo/sola in questa relazione
_______Quando litighiamo, uno dei due si ritira, cioè non vuole più parlare oppure se ne va da un'altra parte

Tratto da Markman-Stanley-Blumberg-Jenkins-Whitheley, “12 hours to a great marriage”, 2004 (traduzione e adattamento mio)

 

 

 

lunedì 21 gennaio 2013

A chi pensa di avere figli "difficili"

Capita che i figli altrui ci sembrino sempre più belli, più felici, con meno problemi dei nostri... forse basterebbe dotarsi di strumenti nuovi per cambiare prospettiva...
Buona visione!

lunedì 7 gennaio 2013

Educare al desiderio: l'importanza dei padri

Il problema che contraddistingue il nostro tempo consiste nel come riuscire a preservare la funzione educativa propria del legame familiare di fronte a una crisi sempre più radicale e generalizzata del discorso educativo. 
Come vi può essere educazione – e dunque formazione – se l’imperativo che orienta il discorso sociale s’intona perversamente come un «Perché no?» che rende insensata ogni esperienza del limite?
Come si può introdurre la funzione virtuosa del limite – funzione che assegna un senso possibile alla rinuncia e che rende possibile l’unione di Legge e desiderio – se tutto tende a sospingere verso l’apologia cinica del consumo e dell’appagamento senza differimenti? 
Come può il legame familiare non cedere sulla sua funzione educativa, sul suo essere il luogo elettivo della trasmissione del desiderio e della soggettivazione, se il discorso sociale dominante esalta l’aggiramento della castrazione come perno della nuova morale iperedonista? Come è possibile sostenere la funzione formatrice della rinuncia e del limite quando l’assenza o il declino dei riferimenti normativi all’Ideale finisce per rendere la rinuncia al godimento pulsionale immediato sempre più insensata?
La difficoltà in cui versa ogni discorso educativo è doppia: per un verso è difficoltà ad assumere con responsabilità la differenza generazionale introducendo il potere simbolico dell’interdizione. Per un altro è difficoltà a trasmettere il desiderio da una generazione all’altra; è difficoltà nel dare testimonianza di cosa significhi desiderare.
L’assenza di conflittualità come fattore imprescindibile della formazione è uno dei sintomi maggiori del legame familiare e del legame sociale ipermoderno. 
Il nuovo disagio della giovinezza non è più segnato dall’Edipo, non si produce dal conflitto tra le generazioni, dalla tragedia dell’usurpazione, dal carattere trasgressivo del desiderio che infrange la Legge. 
Il disagio della giovinezza prodotto oggi è un disagio legato a un effetto di intasamento e di intossicazione generato dall’eccesso di godimento e dal declino della funzione simbolica della castrazione. La clinica dei cosiddetti nuovi sintomi mostra bene come il problema dell’attuale disagio della giovinezza sia come accedere all’esperienza del desiderio.
Questa difficoltà di accesso al desiderio ha certamente a che fare con l’egemonia incontrastata del discorso del capitalista e con l’evaporazione del padre che da essa scaturisce. Ma ha anche molto a che fare con un’assenza di adulti, con una caduta della differenza generazionale e della responsabilità che essa comporta.
Una mia giovane paziente raccontava tutto il suo disagio (e il suo godimento inconscio) nel dover sostenere il padre che, separatosi dalla madre quando lei aveva solo 2 anni, esige di essere consolato ogni volta che le sue storie d’amore finiscono nel nulla. 
La crisi attuale dell’operatività dell’ordine simbolico coincide con la crisi del potere di interdizione, ma anche con la difficoltà della trasmissione del desiderio da una generazione all’altra, coincide con la capacità degli adulti di fornire una testimonianza su come si possa esistere senza voler suicidarsi o impazzire, sulla capacità di rendere questa esistenza degna di essere vissuta. 
È il doppio compito della funzione paterna. Essere chiamati a introdurre un «No!» che sia davvero un «No!» (un mio paziente tossicomane si lamentava di non aver mai incontrato un «No!» di questo genere) e, al tempo stesso, saper incarnare un desiderio vitale e capace di realizzazione. Perché questo doppio compito è oggi così difficile da sostenere?


Parole di Massimo Recalcati tratte da Minimaetmoralia blog, marzo 2011

domenica 6 gennaio 2013

L'importanza di educare al desiderio - parte seconda

Per fare lo psicoanalista bisogna amare le cause perse… La psicoanalisi non sostiene il culto ipermoderno della prestazione, ma tesse l’elogio del fallimento. Essa raccoglie i resti, i residui, le vite di scarto; lavora sulle cause e sulle vite perse.

Ma cosa significa tessere un elogio del fallimento? Il fallimento non è solo insuccesso, sconfitta, sbandamento. O meglio, è tutto questo: insuccesso, sconfitta e sbandamento, ma è anche il suo rovescio. Il fallimento, secondo Lacan, è proprio del funzionamento dell’inconscio. La sua definizione di atto mancato è tutta un programma: un atto mancato è il solo atto riuscito possibile. Perché? Perché è un atto mancato per l’io, ma è riuscito per il soggetto dell’inconscio. Lo stesso accade in una sbadataggine o in un lapsus. Il fallimento è uno zoppicamento salutare dell’efficienza della prestazione.

E, in questo senso, la giovinezza è il tempo del fallimento o, meglio, è il tempo dove il fallimento dovrebbe essere consentito. È quel tempo che esige il tempo del fallimento, dell’errore, dell’erranza, della perdita, della sconfitta, del ripensamento, del dubbio, dell’indecisione, delle decisioni sbagliate, degli entusiasmi che si dissolvono e si convertono in delusioni… del tradimento e dell’innamoramento… 

I giovani sono esposti al fallimento perché la via autentica della formazione è la via del fallimento.
Lo insegnava Hegel e lo insegnano i testi biblici, prima della psicoanalisi. È il fratello più giovane che, nella celebre parabola evangelica, chiede al padre la sua parte di eredità in anticipo per dissiparla nel godimento più ottuso.
La formazione è erranza, discontinuità, incontro, rottura del familismo. C’è sempre nel cammino di una vita una caduta da cavallo, un incontro con la terra, un faccia a faccia con lo spigolo duro del reale. In questo senso i giovani sono più esposti alla malattia dell’inconscio. 


Perché ci sia incontro con la verità del desiderio è necessario smarrirsi, fallire, perdersi. 
Chi non si è mai perduto non sa cosa sia ritrovarsi… I giovani sanno perdersi come nessun altro… Sanno perdersi e ritrovarsi… Ma è fondamentale la presenza degli adulti perché questo avvenga. Sono necessari una casa, un legame, un’appartenenza perché l’erranza dia i suoi frutti. È necessario che i genitori sappiano tollerare le angosce di questo andirivieni.

Il nostro elogio del fallimento sovverte drasticamente l’illusione del discorso del capitalista: «il fallito è l’oggetto», afferma Lacan. Questo significa che l’oggetto non si presenta come ciò che può colmare la «mancanza a essere» che abita il soggetto, ma che l’incontro con l’oggetto è strutturalmente marcato da una condizione fallimentare. L’oggetto è sempre fallito, è sempre insoddisfacente, è sempre un vuoto, una lacuna. La pulsione non si chiude su di esso, ma deve farne il giro. L’oggetto è fallito perché non è mai raggiunto, perché si raggiunge solo la sua ombra.

 Cosa è il disagio della giovinezza nella civiltà dominata dal discorso del capitalista e dalla sua «libertà immaginaria», dalla libertà del godimento che in realtà è una manifestazione del Super-io, ovvero dell’istanza che nega ogni forma possibile di libertà, che rende schiavi? Questa libertà non è il lievito del desiderio, per usare un’immagine evangelica, ma una nuova forma di schiavitù che rigetta ogni forma di responsabilità.
 Il discorso della psicoanalisi è antagonista a quello del capitalista perché la psicoanalisi denuncia l’oggetto come fallito, mentre il discorso del capitalista ne sostiene il potere feticistico, idolatrico, anche se astutamente ne sfrutta l’inconsistenza. Schierarsi dalla parte del fallimento dell’oggetto, del fallimento del rapporto sessuale, del fallimento proprio del soggetto dell’inconscio, è la sola possibilità per provare a far sorgere di nuovo il desiderio e la sua Legge.

Parole di Massimo Recalcati, psicoanalista, tratte da Minimaetmoralia blog, marzo 2011

venerdì 4 gennaio 2013

L'importanza di educare al desiderio - parte prima

Soffermiamoci su almeno due nuove angosce dei genitori di oggi.
La prima è relativa all’esigenza di sentirsi amati dai loro figli. 
Questa esigenza è inedita e ribalta la dialettica del riconoscimento: non sono più i figli che domandano di essere riconosciuti dai loro genitori, ma sono i genitori che domandano di essere riconosciuti dai loro figli. In questo modo la dissimmetria generazionale viene ribaltata. Per risultare amabili è necessario dire sempre «Sì!», eliminare il disagio del conflitto, delegare le proprie responsabilità educative, avallare il carattere pseudodemocratico del dialogo. In questo modo si produce una collusività patogena tra questo «Sì!» perpetuo e il «Perché no?» perverso che ispira il discorso sociale dominante.
La clinica psicoanalitica mostra che senza l’esperienza del limite, l’esperienza stessa del desiderio viene fatalmente aspirata verso un godimento di morte. Lo abbiamo ripetuto più volte. Resta indispensabile che qualcuno – al di là delle differenze di genere e anche al di là del legame di sangue perché, come usava ripetere spesso l’ultimo Lacan, «qualunque cosa» può porre in esercizio la funzione paterna – si assuma il peso dell’atto di introdurre la castrazione simbolica. 
Considerando però che in questo atto di interdizione è già in gioco un movimento di donazione. Perché la Legge che il padre incarna, senza pensare mai di esaurirla nella sua persona, non si manifesta affatto come una pura negazione repressiva, ma come ciò che sa rendere possibile il desiderio. 
È il problema della trasmissione: una generazione deve donare all’altra, insieme al senso del limite, la possibilità dell’avvenire, il desiderio come fede nell’avvenire.
La seconda grande angoscia dei genitori di oggi è quella legata al principio di prestazione. 
Lo scacco, l’insuccesso, il fallimento dei propri figli sono sempre meno tollerati. Di fronte all’ostacolo la famiglia ipermoderna si mobilita, più o meno compattamente, per rimuoverlo senza dare il giusto tempo al figlio di farne esperienza. Le attese narcisistiche dei genitori rifiutano di misurarsi con questo limite attribuendo ai figli progetti di realizzazione obbligatoria. 
Ma, come ha scritto Sartre, se i genitori hanno dei progetti per i loro figli, i figli avranno immancabilmente dei destini… e quasi mai felici. Avere un figlio senza difetti, capace di prestazione, riflette le angosce narcisistiche dei genitori. Il fallimento della trasmissione può essere legato a un’esigenza di clonazione, di immedesimazione nel proprio discendente, di ripetizione dello stesso destino. Era ciò che accadeva nell’epoca edipica del disagio della giovinezza. 
Ma può accadere anche che esso si produca come effetto di un’assenza di atti simbolici, come accade nel tempo ipermoderno. In questo caso non avremo l’investitura fallica, la clonazione, il carattere sacro dell’identificazione – «Diventa come me!» – ma un’esigenza superegoica di efficienza. Non conta tanto la clonazione, ma la necessità di occultare ogni imperfezione. 
I genitori di oggi sono terrorizzati dalla possibilità che l’imperfezione possa perturbare l’apparizione del loro figlio come ideale. È un nuovo mito della nostra civiltà: dare ai figli tutto per poter essere amati; coltivare il loro essere come capace di prestazione per scongiurare l’esperienza del fallimento. Ne consegue che i nostri giovani non sopportano più lo scacco perché a non sopportarlo sono innanzitutto i loro genitori. Il principio di prestazione ipermoderno è un principio di affermazione dell’io. Ma siamo sicuri che il successo dell’io si accompagni alla soddisfazione?

Parole di Massimo Recalcati, psicoanalista, tratte dal blog Minimaetmoralia, 16 marzo 2011

martedì 1 gennaio 2013

Non insegnate ai bambini...

Un ascolto per iniziare l'anno: dedicato ai genitori...

Del testo riporto solo il passaggio qui sotto: piccola grande summa sull'educazione.

Non insegnate ai bambini
ma coltivate voi stessi il cuore e la mente
stategli sempre vicini
date fiducia all'amore il resto è niente 


Giorgio Gaber

 buon ascolto!

lunedì 31 dicembre 2012

Buon anno!

Filastrocca di capodanno:
fammi gli auguri per tutto l’anno:
voglio un gennaio col sole d’aprile,
un luglio fresco, un marzo gentile;
voglio un giorno senza sera,
voglio un mare senza bufera;
voglio un pane sempre fresco,
sul cipresso il fiore del pesco;
che siano amici il gatto e il cane,
che diano latte le fontane.
Se voglio troppo, non darmi niente,
dammi una faccia allegra solamente.

Gianni Rodari

domenica 30 dicembre 2012

A proposito di libri...

"I libri hanno gli stessi nemici che l'uomo: il fuoco, l'umido, le bestie, il tempo e il loro stesso contenuto".
Le pagine che state leggendo parlano soprattutto di libri, una realtà fragile ed esplosiva al tempo stesso. Questi segni grafici, in verità sono creature viventi perchè parlano di vita e di morte, di bene e di male, di splendori e miserie, di vita e di morte.
E' per questo che ha senso il parallelo stabilito da Paul Valéry nel suo saggio sulla Letteratura tra il libro e l'uomo. Il fuoco incenerisce il libro e la nostra carne; l'umido sgretola le pagine e le nostre ossa; le belve calpestano i fogli e artigliano i nostri corpi; il tempo dissolve le carte e consuma la nostra vita.
Ma alla fine c'è un quinto nemico più insidioso ed è quello interno a entrambi i soggetti: il contenuto.
Non è certo per esaltare un  "Indice" o una censura che condividiamo le parole del poeta francese. E' solo perchè è scontato che esistono persone e libri vacui e fatui, perversi e maligni, figli del silenzio e figli della chiacchiera. E allora possiamo rifugiarci dietro l'autorità di Bacone che, nei sui Saggi, non esitava a proporre questo consiglio: "Alcuni libri vanno assaggiati, altri inghiottiti, pochi masticati e digeriti".

Gianfranco Ravasi, articolo sul "Il sole 24 ore" del 3 luglio 2011

martedì 25 dicembre 2012

Auguri di buon Natale!

La Nativita' di Lorenzo Lotto (Venezia 1480ca. - Loreto 1556-7) - Civica Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia

Non credo proprio per nulla ai nostri Natali: anzi penso che sia una profanazione di ciò che veramente il Natale significa.
Costellazioni di luminarie impazzano per città e paesi fino ad impedire la vista del cielo. Sono città senza cielo le nostre. Da molto tempo ormai!


E’ un mondo senza infanzia. Siamo tutti vecchi e storditi. Da noi non nasce più nessuno: non ci sono più bambini fra noi. Siamo tutti stanchi: tutta l’Europa è stanca: un mondo intero di bianchi, vecchi e stanchi.
Il solo bambino delle nostre case saresti tu, Gesù , ma sei un bambino di gesso!
Nulla più triste dei nostri presepi: in questo mondo dove nessuno più attende nessuno.


L’occidente non attende più nessuno, e tanto meno te: intendo il Gesù vero, quello che realmente non troverebbe un alloggio ad accoglierlo. Perché, per te, vero Uomo Dio, cioè per il Cristo vero, quello dei “beati voi poveri e guai a voi ricchi”; quello che dice “beati coloro che hanno fame e sete di giustizia ..”, per te, Gesù vero, non c’è posto nelle nostre case, nei nostri palazzi, neppure in certe chiese, anche se le tue insegne pendono da tutte le pareti...
Di te abbiamo fatto un Cristo innocuo: che non faccia male e non disturbi; un Cristo riscaldato; uno che sia secondo i gusti dominanti; divenuto proprietà di tutta una borghesia bianca e consumista.
Un Cristo appena ornamentale. Non un segno di cercare oltre, un segno che almeno una chiesa creda che attendiamo ancora…


Eppure tu vieni, Gesù; tu non puoi non venire…Vieni sempre, Gesù. E vieni per conto tuo, vieni perché vuoi venire. E’ così la legge dell’amore. E vieni non solo là dove fiorisce ancora un’umanità silenziosa e desolata, dove ci sono ancora bimbi che nascono; dove non si ammazza e non si esclude nessuno, pur nel poco che uno possiede, e insieme si divide il pane.
Ma vieni anche fra noi, nelle nostre case così ingombre di cose inutili e così spiritualmente squallide.
Vieni anche nella casa del ricco, come sei entrato un giorno nella casa di Zaccheo, che pure era un corrotto della ricchezza. Vieni come vita nuova,  come il vino nuovo che fa esplodere i vecchi otri.


Convinto di queste cose e certo che tu comunque non ci abbandoni, così mi sono messo a cantare un giorno:
Vieni di notte,
ma nel nostro cuore è sempre notte:
e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni in silenzio,
noi non sappiamo più cosa dirci:
e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni in solitudine,
ma ognuno di noi è sempre più solo:
e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni , figlio della pace,
noi ignoriamo cosa sia la pace:
e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni a consolarci,
noi siamo sempre più tristi:
e dunque vieni sempre , Signore.
Vieni a cercarci,
noi siamo sempre più perduti:
e dunque vieni sempre, Signore.
Vieni tu che ci ami:
nessuno è in comunione col fratello
se prima non è con te, Signore.
Noi siamo tutti lontani, smarriti,
né sappiamo chi siamo, cosa vogliamo.
Vieni, Signore.
Vieni sempre, Signore.
Padre David Maria Turoldo

domenica 23 dicembre 2012

Di che cosa parliamo quando parliamo di famiglia? La prospettiva sociologica



La famiglia non è né una proiezione degli individui né una struttura che esiste a loro discapito. L’approccio relazionale si lascia alle spalle il vecchio confronto fra chi pensa la famiglia come aggregato di individui (individualismo metodologico) e chi la pensa come una struttura a sé stante (collettivismo metodologico).
Le affermazioni à la Tarde (“Tolto l’individuale, il sociale non è nulla” – che nullifica la famiglia) o à la Durkheim (“Tolti gli individui resta la società” – che ipostatizza una struttura familiare) non ci fanno fare grandi passi in avanti. Quel confronto appartiene ormai a una stagione storicamente tramontata.
Molta parte della sociologia contemporanea non vede la famiglia perché non osserva la realtà sociale “per relazioni”, ma la osserva in base alla distinzione individuo/collettivo intesa come un’antitesi dialettica o come un’opposizione binaria, cioè in base a schematismi per i quali ogni cosa deve per forza cadere da una parte o dall’altra. E con ciò si chiude in un circolo ermeneutico da cui non c’è uscita: la famiglia diventa un incomprensibile intreccio di individuale e sistemico.
Solo oggi cominciamo a sviluppare una teoria sufficientemente adeguata a dar conto del tipo di realtà che è nel sociale familiare (ricorriamo all’espressione “realtà sui generis”, per dire che c’è qualcosa, invisibile, ma che esiste – e non è solo fantasia o inganno antropomorfico).
Occorre orientarsi verso un paradigma autenticamente relazionale: la relazione familiare è quella referenza – simbolica e intenzionale – che connette le persone in quanto genera e attualizza un legame tra loro come generanti (coppia) e generati (figli).
La relazione familiare consiste nell’influenza che i termini della relazione hanno l’uno sull’altro e nell’effetto di reciprocità che emerge tra essi.
“Stare (essere) in relazione familiare” può avere un significato statico o dinamico, può voler dire trovarsi in un contesto oppure in un’inter-azione.
E’ dunque opportuno distinguere fra relazione familiare come contesto (ovvero come matrice contestuale, ossia come situazione di riferimenti simbolici e connessioni strutturali osservate nel campo di indagine strutturale) e relazione familiare come interazione (ovvero come effetto emergente in/da una dinamica interattiva familiare).
Ma, in ogni caso, l’essere in relazione comporta il fatto che, agendo l’uno in riferimento all’altro, ego e alter non solo si orientano e si condizionano a vicenda, ma danno luogo a una connessione sui generis che in parte dipende da ego, in parte da alter, e in parte ancora è una realtà (effettuale e virtuale) che non dipende dai due, ma li “eccede”.

Parole di Pierpaolo Donati tratte da “Relazione familiare: la prospettica sociologica” in Studi interdisciplinari sulla famiglia n°21, Milano, Vita&Pensiero

giovedì 20 dicembre 2012

Matrimonio e famiglia di fatto: distinguere per promuovere l'umano


La cosiddetta famiglia di fatto è un’unione o convivenza libera analoga a quella che intrattengono un uomo e una donna sposati, con la differenza che essi non hanno contratto matrimonio. Si sottolinea che questa è la sola differenza che “fa differenza”.

Ma davvero la non esistenza di un matrimonio come atto legale pubblico secondo un ordinamento giuridico vigente è ciò che marca la sola differenza? Dal punto di vista sociologico non è così.

Mancando l’istituzione, mancano i presupposti sia di orientamento soggettivo, che sono essenziali per la maturazione dell’identità personale, sia di attendibilità oggettiva, che rende organizzata e giusta una società. Le aspettative di ciò che può essere comune ai membri di una famiglia di fatto (dai beni materiali alle relazioni affettive) diventano vaghe e incerte. L’unione libera è tale perché essa non risponde alle aspettative istituzionali (delle istituzioni della società, come quelle politiche, amministrative, fiscali, educative, ecc).

Il diritto dovrebbe poter distinguere le varie forme e trattarle diversamente. Ma ciò implica un sistema giuridico che non sia basato sull’indifferenza o neutralità etica.

Bisogna qui fare un rilievo della massima importanza. Il dibattito pubblico, e anche quello degli studiosi, è inficiato da un equivoco di fondo: la confusione tra distinzione e discriminazione (tra forme familiari).

Dire che il diritto deve essere capace di differenziare le forme di convivenza, significa che il diritto deve poter distinguere la diversa natura delle relazioni intime e primarie, se familiari in senso proprio, oppure per analogia, o solamente per metafora. Dire che il diritto non deve discriminarle significa evitare che forme uguali vengano trattate in modo diseguale.

Lo scopo della distinzione (la differenziazione di ciò che è famiglia e ciò che non lo è) non è quello di penalizzare i conviventi o di negare i diritti umani alla singola persona, ma è invece quello di promuovere le diverse qualità e potenzialità di umanizzazione contenuta nelle diverse forme di relazioni familiari.

Gran parte dei problemi che riguardano il riconoscimento della famiglia di fatto nascono dalla confusione fra distinzione e discriminazione delle forme familiari. Coloro che propongono una legislazione favorevole alle famiglie di fatto e alle unioni civili o affettive confondono la distinzione tra famiglia legale basata sul matrimonio e famiglia di fatto con la discriminazione di quest’ultima. Spesso osservano ogni distinzione (per esempio, unioni etero e omo-sessuali) come una discriminazione, al limite come negazione di fondamentali diritti umani degli individui, là dove invece è della qualità delle relazioni che si sta trattando. In tal modo, il riconoscimento delle famiglie di fatto, legittimata in base a un principio di uguaglianza nella dignità umana, si trasforma in un effetto perverso: l’indifferenziazione delle relazioni sociali proprie della famiglia, e quindi la perdita secca del proprium di queste relazioni. “Il fatto sociale” di “stare assieme” viene equiparato a “un diritto” (norma) cosicchè l’ordinamento giuridico perde la sua essenziale funzione di mediaare tra i fatti e le norme.

L’evidenza empirica dice che, quando lo Stato sociale pone a carico della collettività degli obblighi che derivano dalla mancanza di reciprocità piena a livello delle relazioni interpersonali di coppia, finisce per favorire l’individualismo anziché la solidarietà sociale, e quindi mina le proprie stesse basi di integrazione sociale.

Occorre riconoscere che, anche quando non lo vuole, il diritto non è mai un semplice strumento di gestione sociale che ha la funzione di controllare in modo neutrale le richieste dei cittadini. Il diritto ha sempre una funzione istitutiva della relazione sociale, in quanto contribuisce al riconoscimento e alla realizzazione di processi di differenziazione o indifferenziazione nei confronti di fondamentali qualità antropologiche delle relazioni sociali che caratterizzano una società.



Parole di Pierpaolo Donati (sociologo) tratte da “Relazione familiare: la prospettiva sociologica” in Studi interdisciplinari sulla famiglia n.21, 2006, Milano, Vita e Pensiero

mercoledì 19 dicembre 2012

La famiglia prima di tutto: lo psichismo mafioso


La ricerca ha individuato nella costruzione dello psichismo mafioso siciliano proprio la presenza  di una sottostante matrice familiare “satura”.

Inserire in un registro linguistico psicologico il termine “saturazione” è stato un utile espediente semantico per qualificare la matrice psichica del mafioso; è profondamente calzante perché l’organizzazione mafiosa opera un riempimento totale e massiccio del contenitore mentale dei suoi adepti, ai quali non lascia spiragli per il cambiamento, sbarrando ogni possibilità di trasformazione di stato. L’irrigidimento del pensiero, costretto in copioni già scritti, è tale da amputare la soggettività dell’individuo.

Il modello fondamentalista può essere accostato a Cosa Nostra in quanto essa è foriera di un pensiero totalizzato del suo “Noi-famiglia” d’appartenenza.

Nelle organizzazioni a carattere settale le individualità si sciolgono e si fondono in un unico grande corpo che procede all’unisono. Si genera in tal modo un sistema omogeneo e indifferenziato che sembra disgregare persino le funzioni psichiche dei singoli i quali, spesso allucinati da una sorta di incantamento ideologico, giungono a commettere gesti efferati e incomprensibili.

La presenza di una matrice familiare satura non permette all’individuo di pensarsi diverso dalla medesima causando una predominanza fantasmatica del passato che rende molto instabili i confini fra mondo interno e pensiero familiare.

Lo sfondamento della rete che costituisce la propria sicurezza è un’esperienza di quasi morte perché annienta per un istante l’identità, perché è un insulto ai vincoli che la costituiscono. Ma una volta attraversata questa esperienza catastrofica si può sentire di esistere davvero: accade un’estasi identitaria, una nuova nascita nell’ordine simbolico.

Questo è il gesto della ri-appropriazione di sé, di affrancamento dalla nascita biologica e che permette di diventare persona. Quando tale emancipazione esistenziale è sbarrata, solo rivolgendosi indietro si può sopravvivere. Così l’uomo perduta l’opportunità di esistere soggettivamente “ripara” nel grembo delle matrici familiari. Ed è esattamente quello che accade nella famiglia mafiosa.

La famiglia in questa prospettiva non è intesa semplicemente come un insieme di relazioni tra persone  e tra regole e ruoli, ma soprattutto come ambiente psicologico, come una matrice di pensiero: l’identità personale viene a definirsi affettivamente attraverso un processo complesso e inconscio di mentalizzazione e introiezione degli strumenti di pensiero dell’organizzazione antropologica di cui fa parte.

E’ nel comportamento quotidiano, nel vivere comunitario che l’individuo massimizza sempre i possibili vantaggi della propria famiglia: è soggetto all’esercitazione di una forza inconscia che preme dall’interno con lo scopo di soddisfare i bisogni dell’organizzazione famiglia. Senza la famiglia così concepita interiormente, il mafioso non sarebbe tale.

 

Parole di Serena Giunta e Emanuela Coppola (psicologhe cliniche) tratte da “Territori in controluce”, 2009, Milano, FrancoAngeli

martedì 18 dicembre 2012

Il dono e i legami - parte terza


Circolando, il dono arricchisce il legame e trasforma i protagonisti. Il dono contiene sempre un al di là, un supplemento, qualcosa in più che si cerca di definire con gratuità. E’ il valore di legame.

Il valore di legame è cosa diversa dal valore di scambio e dal valore d’uso. E’ forse quel che meglio spiega la diffidenza che manifesta il dono attraverso il denaro.

La posta in gioco del regalo è che il donatore dimostri che sa che cosa piace al donatario. Questo è più importante della soddisfazione “mercantile” del donatario, poiché è il legame che conta, e il dono è al servizio del legame.

Il valore di legame sfugge al calcolo, il che non significa che non esiste. Il valore di legame è il valore del tempo che il mercato sostituisce con una immediatezza infinitamente estensibile nello spazio, estraendo la cosa dalla rete temporale. Più si isolano le cose dal loro valore di legame, più esse diventano trasportabili, fredde (congelate…), puri oggetti sottratti al tempo. Esprimendo il valore di legame, il dono serve a dimostrarci che non siamo degli oggetti. Ritroviamo così il dono arcaico e lo hau del saggio maori, come lo interpreta Marcel Mauss. Lo hau è lo spirito della cosa che circola. Ora, che cos’è lo spirito della cosa se non quel che essa contiene della persona che ha dato, quel qualcosa che si distacca dal soggetto pur continuando ad appartenervi? E’ il valore di legame, ovvero lo scambio simbolico.

 

Parole di Jacques T. Godbout tratte da “Lo spirito del dono”, 1993, Torino, Bollati Boringhieri

Genitori-figli: educare o piacere?


I genitori devono sapere che, qualunque cosa facciano, agli occhi del bambino avranno sempre torto, anche se faranno del loro meglio. Prima o poi anche i genitori più affettuosi saranno responsabili di una sofferenza del bambino. Se, a quel punto il bambino dichiara: “Non ti voglio bene”, si risponda: “Non ha nessuna importanza, non sei nato per volermi bene”. Sei, sette anni, è già tardi per criticare i genitori. I genitori devono ascoltare con attenzione le critiche dei figli anche se ciò non deve, in molti casi, modificare il loro comportamento, perché devono educare i propri figli, non piacere loro. I bambini che crescendo continuano a voler sempre compiacere i genitori, che ritengono che i genitori abbiano sempre ragione e siano sempre giusti, sono bambini in cattiva salute. Più si può esprimere ostilità verso i genitori, mescolata o alternata con l’affetto, migliore è la salute morale di un bambino. Significa che il rapporto del bambino si è liberato dai legami incestuosi e di dipendenza totale. E’ così che ogni bambino comincia ad avere la propria autonomia.


Parole di Françoise Dolto tratte da “I problemi dei bambini” (1994) 1996, Milano, Mondadori

venerdì 14 dicembre 2012

Il dono e i legami - parte seconda

La generosità comporta la riconoscenza. Questa frase dice tutto. In generosità c’è generazione, c’è il fatto che qualcuno è incline a dare di più di quanto non sia tenuto a fare, che va dunque al di là delle regole stesse del dono. Questa generosità comporta la riconoscenza, una nuova nascita congiunta, un altro dono non previsto, e così di seguito senza fine.
Pensare in termini di dono è essenzialmente cessare di vedere quel che ci circonda (in primo luogo i legami, ma anche le cose) come strumenti e mezzi al nostro servizio.
Il dono è l’alternativa alla dialettica del signore e del servo. Non si tratta di dominare gli altri, né di essere dominato, né di domare la natura, né di esserne schiacciato; ma di appartenere a un insieme più vasto, di ristabilire il rapporto, di diventare membro.
L’uomo moderno si libera dei legami con le persone sostituendoli il più possibile con legami con le cose, dicendosi senza dubbio che è molto meno vincolante, così com’è più facile separarsi da un gatto o da un cane che non da un bambino. In tal modo egli accresce infinitamente il numero delle cose, con l’idea complementare di liberarsi anche delle costrizioni materiali, punto di partenza e obiettivo di tutta questa avventura: l’uomo liberato dalla costrizione storica della fame, del freddo, ecc grazie all’accumulazione delle cose. L’effetto perverso più spettacolare di questo processo è che l’accumulazione non soltanto non libera ma accresce la nostra dipendenza dalle cose, crea un’infinità di bisgoni, modifica addirittura la nostra capacità di resistenza fisica, ci rende invulnerabili e dipendenti dalle cose che abbiamo prodotto per liberarci di loro, per liberarci dai legami sociali.
L’uomo moderno falsamente emancipato dal dovere di reciprocità, schiacciato dal peso dell’accumulazione di quel che riceve senza ricambiare, diventa un grande infermo, e la sua sensibilità lo rende incapace di sopportare i rapporti umani.

Parole di Jacques T. Godbout (sociologo) tratte da "Lo spirito del dono", 1993, Torino, Bollati Boringhieri